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Fausta Squatriti La Cana CollezioneLetteraria Prosa e Narrativa

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Un adolescente tedesco cresciuto nel credo nazista emandato in Italia a fare la guerra, la sua diserzione, l’edu-cazione alla mancanza di ogni regola morale, un’etica aber-rante dalla quale è difficile liberarsi, una villetta ai marginidel bosco, una idea maniacale di ordine, eliminare le pian-te più deboli, ridisegnare la natura razionalmente, una col-lezione di stampe antiche, l’icona della Madre, la donnaitaliana che lo aiuta a fuggire, il suo struggente ricordo, ilritorno a casa tra nascondigli e paura, l’impatto con la pa-tria distrutta, il riscatto della cultura, la difficoltà di rappor-ti amorosi durevoli, ricusare le proprie radici, il freddodentro all’anima, l’incendio doloso, il delitto, infine l’amo-re totalizzante per una femmina di cane di razza, ‘Cana’, co-me Siegfried la chiama nel suo stentato italiano, la tenerez-za per la prima volta provata, la gelosia, il riemergere diconcetti criminali imparati in gioventù, sono gli ingredien-ti di questo romanzo psicologico che traccia il filo condut-tore tra le azioni di un uomo e la sua psiche, rompendo ericomponendo continuamente il puzzle di una vita spezza-ta dall’inizio, marcata dalla disperazione senza dramma dichi è condotto dalla consapevolezza a ricusare la propriastoria, quella della famiglia, del proprio paese, approdan-do per eliminazione alla solitudine, fino all’aridità, riscatta-ta dal compianto su un delitto minore.

Fausta SquatritiFausta Squatriti è artista vi-siva, poeta, narratrice. Tra il1966 e il 1986 è attiva anchecome editore di edizioni nu-merate entrando nel mon-do artistico internazionale.Ha esposto all’estero con Io-

las, René, Fesel, in Italia con Marconi, Mudi-ma, Weber&Weber e altri. Docente all’Acca-demia di Brera, visiting professor alla Uni-versity at Manoa, Honolulu, ha tenuto semi-nari e conferenze in Italia e all’estero, haesposto in Germania in alcuni musei; inRussia il Moscow Museum of Modern Art leha dedicato una personale nel 2009; haesposto a Parigi al Centre Pompidou, nellamostra Elles nel 2011. Nel 1985 è stata cura-trice della sezione “Arte e scienza: colore”alla Biennale di Venezia. Pubblica saggi epoesia in riviste tra cui Alfabeta, L’immagina-zione, Meta, Il Verri, La Mosca di Milano e Te-stuale. Con Vanni Scheiwiller nel 1988 pub-blica La natura del desiderio e nel 1994 Delladiscordia e del suo credo; ha diretto, con Gae-tano Delli Santi, la rivista Kiliagono tra il1993 e il 1995. Male al Male è pubblicato daManni, 2001. Nel 1985 vince il Premio Mon-tale per l’inedito. Tra gli altri titoli: Carnaz-zeria (Testuale 2004), Gesto azzurro alla tua si-nistra (Book 2004), Filo a piombo (Tracce2010, Premio “Scrivere Donna”), Vietato en-trare (La vita Felice 2013). Sue poesie tradot-te in inglese sono state pubblicate sulla rivi-sta internazionale Incontri (Amsterdam2012). Ha pubblicato inoltre il romanzoCrampi (Abramo editore 2006). F

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Fausta Squatriti

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La villetta collocata nel pianoro liscio come una chiazzadi petrolio, ai margini del bosco, sia con il suo volume siacon il bianco dell’intonaco, ferisce la spianata di terra bru-na che è ragionevole supporre come un futuro deliziosopraticello. Frutto insano del desiderio di qualche abitatoredella città di farsi largo nell’intrico di alberi e arbusti che inlarga parte ancora ammanta il terreno collinare da quelleparti, una regione dove il progressivo abbandono delleumili mansioni che danno a chi le pratica un sia pur mode-sto vantaggio, come la raccolta dei legni secchi dentro il bo-sco, è un fatto scontato ormai da anni, con il risultato che ildisordine predomina sull’ordine, anche per quanto riguar-da la natura.

La villetta si configura come espressione delle esigenzedegli antichi proprietari in modo fin troppo palese, e lostraniero che l’acquista per pochi soldi, dopo lo spaventosoincendio che la devasta, con tutta la particella di bosco a leisottostante, una volta in grado di soppesarla con calma visi-tandola nelle sue vuote stanze, mentalmente percorre la vi-ta della famiglia precedente, la cameretta dei bambini, lacucina aperta sulla sala, l’unico bagno, come è d’uso neglianni ’50, già un lusso per i vacanzieri, che una volta giuntinella villetta dismettono le abitudini di città per abbando-narsi a pratiche barbare, fuoco all’aperto, carni arrostite espesso carbonizzate, giochi sguaiati.

Sulla grande terrazza che circonda buona parte della co-struzione, ancora penzola dal gancio saldamente infisso nelmuro granuloso di intonaco finto grezzo, al riparo dalle in-temperie in virtù del terrazzo sito al primo piano e che le fa

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da tettuccio, la minuscola casetta di legno intesa per facili-tare la nidificazione di eventuali uccelli, che non si capisceperché, avendo a disposizione un grande bosco, quasi scon-finato, dovrebbero scegliere quel luogo chiassoso e densodi pericoli, per attuare il loro naturale progetto di pianifica-zione familiare.

Sarà utile per dare spazio dalla villetta, lo spiazzo négrande né piccolo a lei prospiciente, ma potrebbe anche es-sersi formato in un tempo a lei di molto anteriore, anche seuna zona liscia di alberi che si fa largo, parrebbe all’improv-viso, nel bel mezzo di un arruffatissimo bosco, lascia presu-mere che si tratti di un previo disboscamento limitato aduna piccola parte dell’intero bosco, che riprende la sua vo-cazione al disordine non appena lasciato libero di farlo, ol-tre la zona di rispetto che lo separa dalla villetta, costruzio-ne modesta già in partenza, oltre che malinconica, cometutte le cose brutte, a causa dallo stato di abbandono in cuiversa, a giudicare dalle tracce nere che lambiscono le paretiintaccando le persiane, ma una volta messa a posto potreb-be anche diventare invidiabile, visto che il bosco è protettoper legge e nessuna villetta, grande o piccola che sia, presu-mibilmente potrà più essere costruita, e gli abitanti del luo-go, pur domandandosi come avessero fatto i vecchi pro-prietari ad ottenere il permesso di costruzione, a cose fatte,consapevoli che nessuno avrebbe mai ordinato la demoli-zione dell’intrusa costruzione, solitaria e inaspettata alpunto da sorprendere i pochi che si trovano a passare daquelle parti a piedi, cercando funghi o selvaggina, non sene occupano, e molte domande si presentano inevitabil-mente a chi la vede abbandonata, e più recentemente dan-neggiata dall’incendio, anche se difficilmente chi la guarda,con lieve imbarazzo, percepisce dentro di sé la ragione deldisagio, che non condivide con la persona, o le persone,con le quali si accompagna, pensa a una propria personalebizzarria, le cui ragioni non meritano di essere esaltate.

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Alle prime luci dell’alba la gente che popola le collinedei dintorni, più in basso del luogo in cui sorge la villetta,guardando alle proprie spalle verso la barriera che il fittodel bosco dipinge come un’immensa macchia bruna, perce-pisce il bagliore delle fiamme e il pensiero va al bosco, ilcui incendio rimane da sempre un timore incombente, inparticolare da quando, una volta disabitata, la villetta attiraogni sorta di balordi che si accomodano al suo interno,rompono i vetri a sassate, strappano le piante per pura cat-tiveria, non si fanno scrupolo dall’accendere fuochi perscaldarsi, o per cucinare vivande all’esterno, nella buonastagione, certi che pur disapprovando, nessuno si prenderàla briga di scacciarli. Un bene negletto, diventa risorsa ditutti.

La nomea di casa dall’aura negativa, se non proprio ma-ledetta, si rafforza, anche se nessuno osa dirlo chiaramen-te, teme di mostrarsi pavido, o ridicolo. Il danno del fuocosi concentra sui fragili muri, su legni, ferri, vernici, cerami-che, tessuti, plastiche, ogni materia con una sua specificareazione chimica al calore. I proprietari accorsi dalla cittàdopo l’incendio, non sembrano addolorati, sono i figli dicoloro i quali vogliono, in anni lontani, per farli giocare al-l’aria aperta, la villetta isolata ai margini del bosco ma in luiancora immersa, fatto salvo per quel minuscolo spiazzo diterra che la contorna.

Di vendere la villetta dei genitori, gli ex bambini, sem-brano sollevati, ne hanno una gran fretta, e si aspettano,probabilmente, di ricavarne una discreta sommetta. Perce-zione narrata a bassa voce da chi assiste all’incontro preli-minare, svoltosi al bar della frazione cui fa capo il minusco-lo mazzo di abitanti della zona, tra i giovani proprietari e lostraniero che con il suo italiano dal forte accento tedescoda tempo si fa notare giù in paese, inevitabilmente, anche acausa dell’amico che ben presto lo raggiunge, alloggiato an-ch’egli presso la famiglia dove l’uomo, anziano ma ben por-tante, ha una stanza in affitto, l’amico su una brandina di

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fortuna. I due, che pur girando in coppia non sembranoamici, sono visti più volte avviarsi a piedi verso la villettaanche prima dell’incendio, e il tratto di strada non è breve,con la sua salita.

Parrebbe però, e il paese lo sa dalle indiscrezioni di chiassiste alla trattativa, che non si mettano d’accordo sulprezzo.

Lo straniero, che indossa pesanti scarpe da lavoro anchein paese, perlustra la terra scura, allo stato attuale simile aun campo di battaglia, con le sue orme indefinite e qualcherimasuglio bruciacchiato di pianta ornamentale, nel suo va-so di cemento. Sul retro di casa, uno stretto camminamen-to consente di portare senza bisogno di sporcare scarpe,scarponi o zoccoli, i rifiuti di cucina lontano, e metterlidentro il vascone di cemento attorno al quale negli anniuna densa muffa si appropria di ogni fessura livellandola erendendola vellutata, al punto da fare dimenticare che alsuo interno si consuma ininterrottamente la disgregazionespontanea delle sostanze organiche che in tale modo ritor-nano nel ciclo vitale di terra, vermi, spore, mentre maturala rinascita, dal più invisibile organismo fino al più ingom-brante, è solo questione di tempo.

L’acquirente solleva il coperchio, due assi unite tra loroda chiodi, trova il cassone quasi pieno di materia organicadecomposta, e si dice che la userà per concimare le rose,come vede fare alla madre, anche nello chalet tedesco c’è lavasca di cemento per raccogliere i rifiuti, lontano da casa,ma accessibile facilmente.

Piastrelle bianche e lucide salgono lungo le pareti dellacucina fino a metà altezza, partono dal pavimento di grani-glia nera spruzzata di bianco, fino all’interruzione della fa-scia azzurra orizzontale che delimita la fine del muro oltreil quale i baffi del fumo affiorano attraverso la sommariaimbiancatura operata d’urgenza, non appena lo stranieroconclude l’affare, con l’intenzione di trasferirvisi al più pre-

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sto con il manovale tedesco, per risparmiare il costo dellastanza a valle.

Capillari impazziti che se ne corrono da un confine al-l’altro dei piccoli quadrati di ceramica, interrompono iltracciato di nero sangue morto al terminare di uno, per ri-prendere all’inizio del prossimo, la sottilissima rete di scre-polature. L’odore di bruciato si installa in tutti i materiali, esolo con il passare del tempo perderà intensità, pur conser-vando quel sottile sentore di affumicato che il nuovo pro-prietario prevede lo accompagnerà, forse per sempre.

Alle spalle della proprietà, in un terreno privo di alberi,adagiata sulla collina là dove essa sembra terminare per con-giungersi allo spazio del cielo, alta, o bassa che dir si voglia,quanto basta per non costituire una brutale frattura nel pae-saggio solenne, linea di demarcazione tra terra e aria, la ca-scina esiste ancora. Apparentemente vuota di umane pre-senze, proprio come allora. Proporzionata nell’alternanzatra pieni e vuoti, ha ancora il grande portone le cui ante, oraspalancate, il giovanissimo e spaventato Siegfried trova chiu-se, in quei lontani giorni per lui determinanti.

Lo straniero, alla guida dell’utilitaria tedesca, si tiene adistanza, nella stradina di terra battuta che conduce al ca-solare, non tanto distante da non riuscire a percepire inte-ressanti dettagli, da ricongiungere alla sua memoria, an-dando indietro nel tempo senza per questo perdere la pre-cisione di quanto ricordato ossessivamente in tutti gli annitrascorsi, nella sua misera vita di adulto.

Riesce a scorgere, da dove si trova e senza scendere dal-l’automobile, la spianata dell’aia, sulla quale spicca un soloalbero che, gigantesco, occulta dietro le proprie fronde, unpezzo di muro pieno e parte della finestra successiva, cheperò potrebbe anche essere una porta, per separare il fuoridal dentro e regolare la vita degli abitanti.

Una fitta lo colpisce alla testa, un saettare di lucine attra-versa il suo campo visivo per un tempo da lui giudicato lun-

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go e inquietante. E la fuga. La vita nel casolare sarà tornatasenza drammi, senza cambiamenti, se non si considerano co-me tali le nascite relative al ritorno a casa di maschi in età fer-tile, scampati a quella morte ad altri inflitta dalla guerra.

Siegfried sa che da ora in poi le occasioni della fortunadi cui si è assai di rado, e solo relativamente al suo trasferi-mento in Italia, potuto sentire destinatario, si ridurranno azero. Una fortuna non del tutto spontanea, non casuale,fortemente da lui voluta, ma pur sempre fortuna, sebbenela situazione gli sia lamentevolmente scappata di mano, imuri della villetta danneggiati dal fuoco si sgretolano in lar-ghi tratti, e i vetri delle tante finestre, con il calore si sonoinfranti. Scoccianti danni collaterali.

Abbassa il sedile fino a sdraiarsi, fissa il soffitto dell’esi-guo abitacolo, pensa alle stelle del cielo tedesco, immagina-te diverse da quelle altre del pianeta. Il peggio è passato,eppure sente freddo, sul labile confine tra mente e cuore.Lontano da casa, per sempre.

Spalanca la portiera di destra, percepisce l’aria beneficaaleggiare attorno alla sua disperazione per farle vento e rin-frescarla, come quando si soffia sul fuoco, per averlo piùgagliardo. Avrebbe voluto morire molto tempo prima, mal’occasione gli è mancata.

Una presenza improvvisa lo fa trasalire. Sul sedile a luiaccanto, sempre vuoto ad esclusione del manovale tedescoconvocato per compiere quel lavoretto di fiducia, ma la cuipresenza nella vita di Siegfried è da considerarsi del tuttotransitoria, ora cerca di sistemarsi, scivolando su quella su-perficie innaturale, la plastica con la quale la casa automo-bilistica protegge le stoffe bicolori dei sedili, un bellissimocane da caccia. L’intruso fissa l’umano, che gli attribuisceuna simpatica aria imbarazzata, il cuore già trafitto dallasua bellezza.

Il bibliotecario in pensione vede nell’incontro una nuovavita, vita di proprietario di una campionessa femmina, come

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deduce da una rapida occhiata tra le gambe posteriori, per-duta seguendo chissà quali tracce olfattive, oppure abban-donata volontariamente dal suo padrone cacciatore che la ri-tiene poco adatta allo scopo e se ne frega del dispiacere chedarà ai bambini, con i quali quel bellissimo esemplare diBracco si dimostra di sicuro sempre di una pazienza incredi-bile, senza mai ribellarsi ai loro tirannici giochi.

Parrebbe un tozzetto di ramo diviso in due parti l’una piùsottile dell’altra, collegate da uno snodo capace d’influenza-re andatura e velocità, piegamenti o estensioni, parimenti alsuo simmetrico a lui in tutto simile, e occorrerà contarne al-tri due più spessi che se ne stanno dietro, dall’altra parte delvolume, o blocco centrale che dir si voglia, massiccio quantobasta per fare da tronco. Iniziando da sinistra, vale a dire daquella specie di ramo con il suo bravo nodo e relativo ingros-samento, ragionevolmente contato come punto dal qualepartire per l’inventario, e denominato come Uno. Si farà poitransitare lo sguardo nel vuoto, per passare al suo simmetri-co che assume il numero Due, per arrivare solo in seguito,con altri salti, a potere contare come Tre e Quattro i due ra-mi posteriori, o zampe, al tronco principale Uno, attaccatida mirabili snodi che Siegfried finge di non vedere, avendoscelto come criterio di conta il raggruppamento degli ele-menti simili tra loro da poter enumerare l’uno in fila all’al-tro. In questo caso Uno, Due, Tre, Quattro, Cinque, e solodopo passare alle restanti parti del corpo centrale che, bellogrosso com’è, potrebbe riempire una scatola, una cassa, unafossa, ma nessuno si sogna, salvo casi rari di malvagità o in-cidente, di smembrare l’insieme mirabile coronato dal nu-mero Sei, prominente e nobile, mirabilmente attaccato alcentro del corpo fremente del bellissimo cane, già numera-to come Uno, di misura proporzionata al contesto da cui sierge. Dopo le cose si complicano se per proseguire non s’in-tende passare due volte dalla parte numero Uno e dalla Cin-que si dovrà percorrere la via bassa, per spuntare, come dal-l’uscita da un tunnel, alla parte Sei, portatrice a sua volta dimolte altre parti da numerare, orecchie, naso, occhi, narici,

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mandibole, denti, un vero inferno se si intende essere vera-mente ligi alla regola del gioco, regola impossibile da segui-re senza approssimazioni e piccole furbizie.

Siegfried, giunto a casa con l’inaspettata compagna, sirassicura contando le assicelle del pavimento, così comeusa fare con tutto quello che entra nel suo campo visivo, re-goletta escogitata da bambino, per sfuggire all’eccessiva di-sciplina familiare, ma anche sociale, nella scuola di adde-stramento dove non sono pochi i bambini che preferisconosuicidarsi.

Passatempo utilissimo nel periodo della fuga, quandodeve rimanere nascosto a lungo in posti strani, e contaretutto quello che vede lo aiuta ad allontanare l’attenzionedal battito del proprio cuore terrorizzato, svagato nella dif-ficile sfida, che richiede non poca concentrazione, non pas-sare due volte dalla stessa superficie.

Un conteggio a parte si dovrebbe fare per le macchiebrune, a ricoprire a spaglio il corpo muscoloso, macchiesconcertanti se dall’una all’altra s’intende contarle raggrup-pandole per colore, e diventa impossibile non cadere in fal-lo, ripassando due volte o anche più dalla base scura delpelo, per arrivare alla macchia chiara sul muso, proprio sot-to l’occhio destro, che tanto intenerisce il nuovo padronedell’animale, che cerca di sedergli in grembo. L’uomo ridenell’osservare il muso contrito della trovatella che parrebbenon saper bene dove sistemarsi, intuitiva al punto di capireche non sarà scacciata, l’accarezza e così facendo stipulacon lei il contratto di convivenza. Siegfried ride felice comeda tempo, forse mai, ride così felice.

Non c’è niente da ridere, urla il padre rivolto al figliomaggiore che lo vede per la prima volta indossare la divisadi riservista cui la madre ricuce sulla manica lo stemma delpartito che si strappa impigliandosi in un ramo, quando ilnon più giovane aderente al partito si addestra volontaria-mente nel bosco attorno allo chalet, niente da ridere, non

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c’è mai niente da ridere, neppure il partito vuole che lagente rida, non si ride.

La trovatella sbadiglia, mostra, affondati nella carne ro-sea delle abbondanti gengive, tutte contornate da carne ne-ra che fa da congiunzione alla diversa materia molle delleguance, il candore di pinnacoli dentro fauci morbidamenteaccasciate anche nell’inevitabile tensione dello sbadiglio.Pinnacoli in tutto simili alle rocce mitiche degli antenati,raffigurate in epoca romantica dagli artisti tedeschi, Shin-kel, Carus, e su tutti, Caspar David Friedrich, che in quellaprima metà dell’ottocento inventa il sublime, nella dolorosacertezza del dubbio, letto nel senso panico di una naturanon più effigiata nella fissità rinascimentale e neppure nel-la ventosa allegoria barocca e ancor meno nell’approssima-zione già fenomenica del settecento, ma nella sua valenzametaforica e di primo piano, modello di perfezione capacedi arginare il tragico con il malinconico, per omaggiarel’Uomo, visto di spalle, mentre pericolosamente fronteggiala tremenda scogliera bianca nell’isola di Rugen, potenzadivina espressa dalla natura. Mistero che si spiega gradual-mente con la ricerca scientifica, e con essa inizia la sua per-dita di popolarità, mentre ci vorrà un secolo e mezzo perarrivare alla laica oggettività formatasi sul tavolo anatomicodella seconda guerra mondiale.

Siegfried ringrazia il custode trovato con un pizzico difortuna, accetta di mostrargli in pieno giorno il teatro ri-masto all’est, lo apre apposta per lui, sorpreso dallo stranodiscorso di quell’insistente visitatore su come il teatro è sta-to prima, ma prima quando?, e visibilmente deluso quandolui, che custodisce il teatro, non sa nulla delle stalattiti bian-che che gli sono mostrate nelle pagine di un vecchio libroin bianco e nero che il visitatore consulta scotendo il capo.

– Poelzig, detto il barbaro, nel 1919 crea il massimo del-l’effetto decorativo, nuovissimo per i tempi, un decoro se-vero, straniante, stalattiti in gesso sgocciolano dalla galleria

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sulla platea, la Repubblica di Weimar impone di risparmia-re sui materiali, nella creazione fantastica del GrossesSchulspielhaus, non ne ha mai sentito parlare lei?

– Non le piace il teatro com’è adesso?Siegfried osserva a lungo la cupola dipinta di verdino,

ribassata, perforata da molte luci che, se accese tutte insie-me, fanno l’effetto di un cielo stellato senza pathos, conquel neutro verdino da ospedale.

– Seduta! Tu impara, seduta! Qua la zampa, brava! Maallora lo sapevi già fare, brava!

Siegfried la fissa ben oltre il breve momento dell’ordinedel quale l’animale intuisce il valore.

– Lili, ti piace Lili? Sì che ti piace, ricordi Lili Marlene?No che non la ricordi tu, basto io a ricordarla, ecco, tu daora in avanti sei la Signora Cana Lili, adottata del figlio dicane Siegfried.

L’animale lo guarda implorante.– Sì, brava Cana, vieni qui, bella, siamo amici.Gli butta le zampe al collo, lo annusa e lo lecca, il fiato

caldo accanto al volto ghiacciato di imbarazzo, incapace direspingere la sua tenerezza.

Si sdraia a terra, lascia cadere i libri che tiene tra le ma-ni, il freddo lo lambisce partendo dallo stomaco, il sudorelo bagna, le mani tremano. Porta le ginocchia al mento, ilbattito del cuore rallenta. Vede le mille lucine saettanti chedanno inizio all’emicrania. Lili gli è accanto, lui le accarez-za lentamente il bel muso e lei si sdraia per offrire, inerme,il ventre, i minuscoli capezzoli rosei, le quattro zampe an-naspanti nel vuoto, come un cavallo azzoppato che cerchiinutilmente di rialzarsi.

L’adorato Caspar David lo disegnerebbe in veste agre-ste, seduto su di una rustica ma ben proporzionata sedia, ilcane quieto al fianco, la roncola inerme sdraiata ai suoi pie-di, lasciandogli il cappello da contadino e gli stivali chehanno preso la forma dei piedi, allargati dalle marce di chiè nato contadino e deve fare il soldato.

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Fausta SquatritiFausta Squatriti è artista vi-siva, poeta, narratrice. Tra il1966 e il 1986 è attiva anchecome editore di edizioni nu-merate entrando nel mon-do artistico internazionale.Ha esposto all’estero con Io-

las, René, Fesel, in Italia con Marconi, Mudi-ma, Weber&Weber e altri. Docente all’Acca-demia di Brera, visiting professor alla Uni-versity at Manoa, Honolulu, ha tenuto semi-nari e conferenze in Italia e all’estero, haesposto in Germania in alcuni musei; inRussia il Moscow Museum of Modern Art leha dedicato una personale nel 2009; haesposto a Parigi al Centre Pompidou, nellamostra Elles nel 2011. Nel 1985 è stata cura-trice della sezione “Arte e scienza: colore”alla Biennale di Venezia. Pubblica saggi epoesia in riviste tra cui Alfabeta, L’immagina-zione, Meta, Il Verri, La Mosca di Milano e Te-stuale. Con Vanni Scheiwiller nel 1988 pub-blica La natura del desiderio e nel 1994 Delladiscordia e del suo credo; ha diretto, con Gae-tano Delli Santi, la rivista Kiliagono tra il1993 e il 1995. Male al Male è pubblicato daManni, 2001. Nel 1985 vince il Premio Mon-tale per l’inedito. Tra gli altri titoli: Carnaz-zeria (Testuale 2004), Gesto azzurro alla tua si-nistra (Book 2004), Filo a piombo (Tracce2010, Premio “Scrivere Donna”), Vietato en-trare (La vita Felice 2013). Sue poesie tradot-te in inglese sono state pubblicate sulla rivi-sta internazionale Incontri (Amsterdam2012). Ha pubblicato inoltre il romanzoCrampi (Abramo editore 2006). F

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